Big Data per sconfiggere Covid 19

L’utilizzo dei big data si sta dimostrando uno strumento efficace per tracciare spostamenti delle persone e quindi la mappa dei contagi. Ma non sono poche le preoccupazioni sulla tutela della privacy dei cittadini. Cos’è stato fatto in Cina e Sud Corea e cosa si pensa di fare in Italia

di Maria Pia Terrosi

In attesa del vaccino che secondo l’Oms non sarà disponibile prima di 18 mesi, la tecnologia potrebbe essere l’arma vincente per sconfiggere – o almeno rallentare – il Covid 19. Partendo dal ricorso a sistemi di videosorveglianza per monitorare gli assembramenti di persone, software in grado di misurare la temperatura corporea a distanza utilizzabili nelle metro, ad apparecchi in grado di rilevare tramite tac in 20 secondi una polmonite da coronavirus, e droni che invitano i cittadini a rientrare nelle loro case.

Ma soprattutto, per arginare la pandemia, fondamentale sembra essere l’utilizzo dei big data: dati ricavati dall’uso dei trasporti pubblici, relativi a transazioni effettuate con carta di credito, ma soprattutto ottenuti direttamente dagli smartphone. In Cina, Singapore e Sud Corea il cellulare – sfruttando i dati di geolocalizzazione o utilizzando app – si è rivelato uno strumento molto efficace e in grado di fornire una grande quantità di informazioni sugli spostamenti delle persone e quindi sulla circolazione del virus. Tracciare gli spostamenti – il contact tracing –  infatti è stata indicata come misura basilare dal direttore generale dell’Oms Tedros Adhamon Ghebreyesus che in un’intervista dello scorso 16 marzo aveva ricordato che la chiusura di attività, scuole e aziende, il cosiddetto lockdown, non era sufficiente e aveva individuato in “test, isolamento e tracciamento dei contatti la spina dorsale della risposta a Covid 19”.

Big data in Cina e Sud Corea

Senza dubbio in Cina l’uso dei big data è stato un elemento chiave per controllare il contagio e attuare le misure di distanziamento sociale. Proprio il governo di Pechino ha sviluppato Health Code, una app che assegna a ogni cittadino un colore- rosso, giallo o verde – indicando in questo modo chi deve rimanere a casa in quarantena, chi potrebbe essere positivo al virus e chi invece può muoversi tranquillamente. Il codice viene assegnato alle persone sulla base di alcune variabili tra cui il tempo trascorso negli hotspot dell’epidemia e l’esposizione a potenziali portatori del virus. La stessa China Mobile –il primo operatore telefonico del Paese – ha fatto la sua parte mettendo a disposizione i dati degli spostamenti degli ultimi giorni dei suoi utenti sospetti positivi o successivamente riscontrati positivi al virus: dal treno preso  al supermercato visitato. E questo è servito a tracciare, in determinate città, le possibilità di contagio.

Il successo dei limitati contagi e vittime in Sud Corea è frutto dell’esser riusciti rapidamente a individuare i soggetti positivi e soprattutto averne ricostruito i movimenti. Obiettivo raggiunto grazie ai big data forniti dai cellulari. A febbraio è stata lanciata Corona100,  app che informa l’utente  inviando una notifica sullo smartphone quando  si trova entro 100 metri di distanza  da un sospetto positivo. E ancora Corona map site –  14 milioni di accessi dall’inizio dell’emergenza Covid 19 – applicazione che fornisce dati sugli spostamenti effettuati anche nei giorni precedenti dei soggetti risultati positivi al virus, basandosi sulla geolocalizzazione della cella dello smartphone, sui pagamenti elettronici e sui video di sorveglianza.

A Singapore gli smartphone sono stati utilizzati anche per essere certi del rispetto della quarantena da parte delle persone contagiate.  Su richiesta delle autorità il cellulare va usato per dimostrare la propria permanenza in casa, condividendo la posizione del proprio telefono oppure scattandosi un selfie in diretta tra le quattro mura.

E’ evidente che un utilizzo così massiccio e spinto di dati personali pone non poche preoccupazioni in termini di tutela della privacy. E nelle modalità attuate in Cina, Sud Corea e Singapore è impensabile possa essere fatto nei Paesi europei dove per fortuna la sensibilità, come anche la normativa, sulla tutela dei dati personali dei cittadini è ben diversa.

Big data, privacy o salute?

Ma è un’arma alla quale sia pur con modalità diverse non si può rinunciare del tutto. In un’intervista del 19 marzo  al Financial Times Yuval Harari, scrittore di successo di libri come Sapiens e Homo Deus,  mette in guardia dall’utilizzo dei big data. “La crisi del coronavirus potrebbe essere il punto di svolta della battaglia. Perché quando le persone possono scegliere tra privacy e salute, di solito scelgono la salute.  Chiedere alle persone di scegliere tra privacy e salute è, in effetti, la vera radice del problema. Perché questa è una scelta falsa. Possiamo e dobbiamo godere sia della privacy che della salute. Possiamo scegliere di proteggere la nostra salute e fermare l’epidemia di coronavirus non istituendo regimi di sorveglianza totalitaria, ma piuttosto dando potere ai cittadini”.   Su questo tema si è pronunciato con chiarezza Antonello Soro, il Garante per la protezione dei dati personali, che sulle esperienze di Cina e Corea e più in generale sul tema della tutela delle libertà personali ha precisato in una recente intervista: “Mi limito a osservare che quelle esperienze sono maturate in ordinamenti con scarsa attenzione – sebbene in grado diverso- per le libertà individuali. E in ogni caso mi sfugge l’utilità di una sorveglianza generalizzata alla quale non dovesse conseguire sia una gestione efficiente e trasparente di una mole così estesa di dati, sia un conseguente test diagnostico altrettanto generalizzato e sincronizzato. Premesso questo, non esistono preclusioni assolute nei confronti di determinate misure in quanto tali. Vanno studiate però molto attentamente le modalità più opportune e proporzionate alle esigenze di prevenzione, senza cedere alla tentazione della scorciatoia tecnologica solo perché apparentemente più comoda, ma valutando attentamente benefici attesi e ‘costi’, anche in termini di sacrifici imposti alle nostre libertà”.

In effetti anche in Italia ci si sta muovendo in questa direzione. Nelle scorse settimane la Regione Lombardia ha iniziato ad analizzare gli spostamenti effettuati dai lombardi all’interno della regione dopo le restrizioni, grazie ai dati forniti dai gestori della telefonia mobile. Dati raccolti – e qui sta la differenza con quanto avvenuto in Cina e Sud Corea – in forma anonima e aggregata, ma comunque utili per tracciare e verificare il rispetto delle restrizioni introdotte.

Anche il settore privato non sta con le mani in mano. In provincia di Sondrio è stata messa a punto nei giorni scorsi da un’azienda privata StopCovid19,  una app –  messa a disposizione delle autorità-   in grado di ricostruire i movimenti e i contatti avuti da una persona riscontrata positiva al virus.  In questo modo potrebbero essere mappate tutte le persone a rischio contagio.

Non solo. Il ministero dell’Innovazione proprio il 24 marzo ha lanciato il bando Innova per l’Italia per individuare soluzioni tecnologiche per il monitoraggio attivo del rischio di contagio. La chiamata – si legge nel sito Innova Italia – è rivolta ad aziende, università, enti e centri di ricerca pubblici e privati, associazioni, cooperative, consorzi, fondazioni e istituti, in modo singolo o associato, che hanno già a disposizione piattaforme, tecniche e algoritmi di analisi e intelligenza artificiale, robot, droni e altre tecnologie per il tracciamento continuo, l’alerting e il controllo tempestivo del livello di esposizione al rischio delle persone e conseguentemente dell’evoluzione dell’epidemia sul territorio. Nel rispetto dei principi della privacy, sicurezza ed etica.

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