Seconda parte del nostro percorso (qui la prima puntata) alla scoperta di ciò che si muove di green nella moda. Come le tantissime iniziative no profit per sensibilizzare consumatori e produttori. Ma c’è chi denuncia un certo immobilismo da parte dei grandi marchi…
di Barbara Battaglia
Comprendere come un vestito, una giacca o un paio di pantaloni viene fatto, da chi, a quali condizioni, fino al suo arrivo nei negozi sembra aver acquisito importanza nell’immaginario collettivo, nelle scelte dei consumatori e cittadini. Le iniziative di sensibilizzazione sull’impatto dei vestiti che indossiamo sono moltissime.
Responsabilità e impegno sociale (ai tempi del Covid)
La Clean clothes campaign, declinata in Italia come Campagna abiti puliti, è un network globale composto da 234 organizzazioni. Nel nostro Paese è coordinata da Fair, un’organizzazione di commercio equo e composta da Altraqualità, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti Onlus, Movimento Consumatori, OEW, Hoferlab.
Secondo quanto stima questa rete, sarebbero 60 milioni i lavoratori dell’industria globale dell’abbigliamento: circa l’80% di questa forza lavoro è composta da donne e non percepisce un reddito dignitoso.
Lo scorso agosto, inoltre, la campagna ha pubblicato un dossier ad hoc sugli “Stipendi negati in pandemia”, nel quale analizza i mancati pagamenti e i tagli salariali ai danni dei lavoratori tessili nei mesi di marzo, aprile e maggio in seguito all’imposizione di aspettative non retribuite, a tagli pubblici, all’interruzione dei rifornimenti e alla cancellazione di ordini da parte dei brand. L’inchiesta ha rivelato che in tutti i Paesi del sud e sud-est asiatico i lavoratori hanno ricevuto strutturalmente il 38% in meno di quanto gli spettasse. Rapportando questi numeri all’industria mondiale dell’abbigliamento, ed escludendo la Cina, secondo Clean clothes un’ipotesi al ribasso attesterebbe tra 3,19 e 5,78 miliardi di dollari la cifra dei salari mancanti.
UN Alliance for Sustainable Fashion è poi un’alleanza co-sponsorizzata dalle principali organizzazioni delle Nazioni Unite, nell’ambito di UN Climate Change. La sua mission? Incoraggiare la moda sostenibile attraverso la sua campagna Climate Neutral Now, che invita le aziende a essere consapevoli del proprio impatto ambientale, a ridurre la maggior parte della propria impronta di carbonio e a compensare il resto investendo in progetti certificati in Paesi in via di sviluppo, garantendo benefici economici, sociali ed ambientali alle comunità locali.
#cambiamoda
#cambiamoda è invece il nome di una campagna di sensibilizzazione e di una piattaforma lanciate pochi mesi fa dalla Ong Manitese con Istituto Oikos e, anche in questo caso, Fair. Chiede agli aderenti di spendersi – online ma anche nella vita di ogni giorno – per una moda che si basi sulla drastica riduzione di rifiuti, inquinamento ed emissioni di CO2. Inoltre, tra le richieste, vi è quella di maggiore trasparenza sulle modalità di produzione dei vestiti che compriamo.
L’iniziativa prevede inoltre percorsi di formazione per insegnanti e studenti, eventi pubblici di informazione e sensibilizzazione, workshop rivolti a operatori d’impresa. Tra gli ambassadors della campagna, nomi noti come la fashion design blogger Marinella Rauso, la youtuber Sofia Viscardi, la travel blogger Francesca Barbieri.
E nel quadro di questa crescente consapevolezza, anche riciclo, riuso ed economia circolare entrano a far parte sempre di più del mondo e del linguaggio di chi acquista e di chi realizza capi di abbigliamento. Burberry, Adidas e Gap sono in questo senso tre grandi nomi che stanno investendo in circolarità.
Pericolo greenwashing?
Per fare l’avvocato del diavolo, c’è da chiedersi, di fronte a tutte queste linee di moda green, quali siano le ragioni dietro le scelte dei grandi e piccoli marchi del settore moda. Marketing? Greenwashing? O rinnovata responsabilità d’impresa e consapevolezza etica?
Movimenti ambientalisti ed altermondialisti denunciano questo modello da decenni, proponendo correttivi e ricette praticabili, se non una svolta totale, una “rivoluzione”, rispetto allo sviluppo neoliberista.
Il report di CDP: quanto impatta la moda sul nostro pianeta?
Ed è dell’altro ieri, su Repubblica, l’analisi di un report dell’organizzazione no profit CDP sull’impatto della moda sull’ambiente. Secondo il dossier (che trovate a questo link) la proliferazione della fast fashion, la moda istantanea o usa e getta, delle grandi catene, che realizza abiti di bassa qualità a prezzi super ridotti e lancia continuamente nuove collezioni, continua a provocare danni.
Non solo, perchè a livello di trasparenza i brand sarebbero molto poco attrezzati.
Su 136 aziende alle quali CDP ha rivolto le domande della sua inchiesta solo 62 hanno risposto. Di queste, solo cinque società hanno segnalato rischi sostanziali associati alla produzione di materie prime e nessuna azienda considera l’inquinamento nelle fasi di utilizzo e smaltimento del prodotto, un rischio sostanziale per la propria attività. La maggior parte delle aziende tessili e dell’abbigliamento prese in considerazione “non dimostra una consapevolezza o una comprensione completa dei potenziali rischi di inquinamento idrico esistenti lungo le loro catene produttive. Ciò suggerisce che molte società stiano sottostimando il loro impatto e siano quindi in una posizione insufficiente per gestire tale dinamica e cogliere le opportunità di “business” di una svolta green.
Come dire, bene ma non basta. In più forse a qualcuno verrà in mente anche di chiedere il conto ai brand che fino all’altro ieri hanno calpestato ambiente e persone e oggi si riscoprono improvvisamente conscious. O, per essere meno radicali, a voler capire quanto incide realmente l’impegno green sulla produzione complessiva delle singole aziende. Basta una linea di prodotti a equilibrare il rapporto tra danni e benefici causati alla Terra? O serve una transizione rapida e il più ampia possibile verso un modello produttivo che sia ecocompatibile?
La tutela delle risorse naturali ed umane può essere una moda, un trend da cavalcare a favor di telecamere? Ai posteri – se il Pianeta regge – l’ardua sentenza.